Laura, 31 anni. Ostetrica e cagacazzi.
Ore 2:30. Le lunghe braccia della notte circondano il crocevia dell’Asia Centrale. Tutto è immobile. Persino la polvere si cristallizza sui filati dei tappeti persiani. All’improvviso, un suono. La radio gracchia “Falcon 27, this is Falcon 29, over. Go ahead. Please come in delivery room, over and out”. Laura sobbalza, nervosa, apre gli occhi e il blu dell’iride invade la stanza appesantita dall’immobilità. Riconosce la voce di Anita, la sua collega preferita. E in quel momento, proprio quando le sue sinapsi portano quella voce nel lobo cerebrale dell’Insula, deputato alle emozioni, i suoi occhi si schiariscono. Diventano azzurri. Perché Laura è felice. È felice di fare il lavoro per cui è nata, il lavoro in cui sa di essere valente, il lavoro che la fa sentire a casa. E, in quel momento, casa è Anabah.
Laura ha lasciato Farida da solo un’ora, per rifiatare da un parto che si potrae da ormai 18 ore. Sostituita da una collega locale. Ma tra poco si vedrà la testa. Farida è dilatata circa 9 centimetri, quasi il massimo. Laura afferma “Ci siamo”. Laura è stata ostetrica nel centro di Maternità di Anabah, di Emergency. Lei sa cosa fare, sa quando dire ‘Zurku’ (spingi, in farsi)” e quando dire ‘Nafasbighi’ (respira, in farsi)”. Farida è stanca, quasi demotivata. Ma la bambina sta bene, Laura incita Farida, le concede un po’ di riposo. “Ti assicuro che è una femmina. Le femmine sono più forti. E per sopravvivere in questo posto, bisogna essere forti”, dice Laura. Ora Laura è tornata nella sua seconda casa, l’Emilia. E si presta a quest’intervista, con la riservatezza tipica di chi annuncia ai propri genitori che parte per l’Afghanistan “per andare a fare il mio lavoro”. Io la chiamo Kabul, per sfotterla un poco. E per metterla a suo agio. Per fortuna funziona, e riusciamo a immergerci in un’atmosfera che ha l’accento farsi e i colori degli arazzi afghani.
- Laura, quando hai scelto di fare l’ostetrica? - “Beh, possiamo dire che è stata Ostetricia a scegliere me. All’inizio volevo fare medicina. Sapevo che volevo fare qualcosa del genere perché sono cresciuta in quest’ambito. Da bambina per me andare in ospedale a trovare il papà era un regalo, mi piaceva l’odore dell’ospedale. Da più grande lo accompagnavo nelle visite domiciliari, lo accompagnavo quando faceva l’ambulatorio della medicina sportiva dove io avevo il compito di chiedere a tutti gli sportivi se fossero daltonici. Pensa, gli facevo il test con il timbro chiedendogli se lo vedessero arancione o grigio. Poi, quando non ho passato il test di medicina, è stato proprio mio papà a incitarmi e dirmi ‘bene, ora vai a fare quello per ostetricia’ perché io ci ero rimasta proprio male, non ci volevo andare. Poi mi sono resa conto che è quello che avrei sempre voluto fare, solo che non lo sapevo. Sempre da piccolina speravo, quando vedevo una donna gravida, che partorisse in quel momento, non so cosa mi immaginassi potessi io fare in quel momento ma speravo partorisse. È vero, è nata un po’ così, casualmente, ma in realtà è sempre stata la mia strada. Guarda caso, quando le cose sono sempre andate lisce è quando ho cominciato Ostetricia.”
- Ma qual è il ricordo più bello che hai di questa tua carriera? - “Dirò una banalità, ma sicuramente il primo parto. Oggi, a distanza di 8 anni me lo ricordo ancora. Durante il primo anno di ostetricia ho scelto di fare tirocinio in un periodo in cui tutte le altre studentesse erano via. Agosto. Quindi mi sono ritrovato catapultata in sala parto a fare mille cose, a vedere i primi parti. Il primo me lo ricordo, era una signora marocchina che aveva fatto partorire Omar. Mi ricordo che avevo paura di svenire, perché molte mie colleghe mi avevano raccontato che erano svenute. Invece mi si era appannata tutta la visiera, sudavo dall’emozione e mi ero commossa al parto. Tanto che l’ostetrica anziana esclamò ‘Guarda, che bello vedere che alcuno ancora si emoziona’. Me ricordo tanti altri momenti, di quell’agosto che è sembrato lunghissimo.”
- Hai tanta autocritica, e questo è un segno di forza. Ma ci sono stati dei momenti che hanno minato questa forza? - “Beh, si. Tutti li abbiamo. Mi ricordo un episodio spiacevole. Avevo assistito, da tirocinante, una signora che aveva partorito un neonatino con la Trisomia 21. Non nota. Mentre la stavo suturando è arrivata l’ostetrica titolare e mi ha fatto vedere un bigliettino con scritto Trisomia 21 e fatto cenno di non dirlo, perché poi la notizia l’avrebbe comunicata il Pediatra la mattina dopo. Per cui io dovevo fare finta di niente. La mattina dopo sono andata a trovarla, ricordo che mi ha subito chiesto perché non le avessi detto niente, e io sono stata male. Ho pianto tantissimo, mi sembrava veramente di aver tradito la sua fiducia. Da quell’episodio ho imparato molto. Poi ci sono stati molti episodi che mi hanno fatto riflettere, specie in Afghanistan. Lì non riesci mai a capire alcune situazioni, ti sembra di vivere tutta l’impotenza possibile, ti viene proprio da dire ‘ma serve?’. Ti chiedi quanto giochi la gestione clinica, quanto la storia pregressa di queste donne, quanto conti il doverle incontrare solo a fine gravidanza. Ti chiedi se sarebbe cambiato qualcosa se lei fosse arrivata prima. Insomma ci sono veramente tante situazioni che ti fanno pensare.”
- Tu sei una molla, sei sempre in giro, sempre carica a fare cose, a vivere. Ma qual è la molla che ti ha spinto in Afghanistan? - “Anche qui, è venuta da sé, per me è stato un passo naturale. Io ho scelto una professione sanitaria che mi permettesse di fare questo genere di esperienze. Quando ho finito di studiare, prima di laurearmi, sono andata in Sierra Leone a fare volontariato come allieva ostetrica e ricordo che quel periodo mi mise a posto tantissimo. Tu vai li con la pretesa di insegnare o di imparare, ma in realtà ti trovi davanti un mondo inaspettato e completamente diverso, una realtà completamente diversa, dove tutto il tempo lo passi a capire. e capisci che non ci sei solo tu a questo mondo E allora impari a pensare in altro modo. E lì ho capito che erano situazioni in cui mi sarei voluta trovare. Da laureata non mi sentivo ancora pronta per una missione strutturata, con un obiettivo. Per cui mi sono impegnata a maturare esperienza e ho frequentato corsi che mi servissero, oltre a quello che imparavo al lavoro. Sapevo che sarei voluta andare in un posto con un progetto, con degli obiettivi da ottenere e delle persone da formare. E poi è arrivato il centro di Maternità ad Anabah. Nel 2016-2017 e nel 2019-2020”.
- Hai fatto due missioni in questo centro, qual è la differenza più grande che hai notato? - “Intanto la cosa che io racconto sempre è un’immagine. È la seconda missione: ricordo proprio il momento in cui ho appoggiato la valigia sul pavimento con le piastrelle allucinogene che ci sono in casa, sono tipo bianche e nere e se le guardi troppo ti danno fastidio agli occhi. Ho pensato che ero tornata a casa. Mi sembrava di non essere mai andata via. La prima volta sei attenta ai più piccoli dettagli, tutto ti preoccupa, dal sopravvivere al solo scendere a colazione con persone che non conosci. La seconda missione è più tranquilla, alcuni dettagli li conosci già. Ricordo che all’inizio avevo timore di rispondere alla radio, perché non si capisce niente, ti sembra di non capire nulla e comunque va utilizzata secondo un codice da rispettare. Ecco, quando fai la seconda missione queste cose non ti impensieriscono perché le conosci. È stato bello vedere lo stupore delle ostetriche locali: loro vedono il ricambio semestrale delle ostetriche internazionali, ostetriche che promettono di tornare, ma è difficile farlo in tempi brevi. Vedere la loro faccia quando prima dici ‘tornerò’ e poi lo fai davvero, è stato veramente intenso. Nella seconda missione mi ero data come obiettivo la lingua, il farsi. Le locali non conoscono l’inglese, per cui era diventata una sfida per me, nella seconda missione, imparare più possibile il farsi! Per comunicare direttamente con loro. Per me questo è sintomo di quanto ti piaccia quella cosa. Io a fine missione capivo le donne cosa si dicevano tra di loro, mi faceva sentire parte di loro, vivevo tutta l’esperienza nella sua interezza. Un pochettino più dall’interno. È anche un modo per dimostrare che hai veramente voglia di stare con loro, di aiutarle, di stabilire un vero legame” - Ma ci sono stati dei momenti in cui hai avuto paura? - “Penso che avere paura sia naturale, sia giusto. C’è quella sana paura che ti permette di essere vigile, di tenerti sempre sul chi-va-là e di dare il meglio, ti tiene attiva e con le antenne alzate. Ti porta a migliorare, focalizzata sul punto. Secondo me chi dice che fa l’Ostetrica e non ha paura, ha perso. Perché noi siamo nel 2020 ma di questi bambini che nascono sappiamo praticamente nulla. Cioè sappiamo sempre di più, ma è solo una infinitesima parte della loro vita in utero. E c’è da avere paura, perché ci sono situazioni che non puoi controllare, che sono improvvise e fanno paura. Ma la paura puoi convertirla in azioni, azioni fatte bene, con una logica. Si ho avuto paura quando ero via, pur essendo in un posto molto tranquillo. Mi ricordo che di notte andavamo al presidio, e incontravamo persone armate con il mitra che sorvegliavano. Tu dici ‘vabbè non mi fanno niente’ e lo sai, ma intanto le incontri. Poi la paura riesci a trasformarla in sentimenti positivi, in adrenalina, in voglia di fare.”
- Castigliani, quanto ne abbiamo oggi? - “30 giugno 2020” - Bene, dov’è la Castigliani il 30 giugno 2030? - “Non lo so, sono molto combattuta dove sarò. Faccio fatica a vedermi. Probabilmente sarò ancora qui, e starò lavorando in ospedale. Spero di aver fatto qualcosa di buono e di concreto. Mi piace pensare che avrò un piede in ospedale e un piede in una missione, dove contribuirò alla formazione e all’organizzazione. Comunque con un piede da un’altra parte.”
- Ma quanto ci hai messo ad accettare che l’ostetrica ha anche un forte valore psicologico? - “Forse l’ho sempre saputo, non lo so. È una cosa che avevo sempre immaginato, e ne ho avuto conferme lavorando. Mi sono resa conto di come il travaglio sia una fotografia della vita, di quel momento di quella donna. Come se tu, entrando ad aiutare nel travaglio, potessi sbirciare dalla serratura la vita di quella donna, di quel compagno, di quel figlio. Riesci a vedere la donna in un momento della sua storia personale, un momento di fragilità, vedi se ha degli strumenti che sta tirando fuori o se non ce li ha proprio, se è una donna solida, se è in difficoltà o se ha semplicemente bisogno di qualcuno al suo fianco che la sorregga e le offra una spalla per recuperare le sue capacità e metterle in pratica. L’ostetrica ha il privilegio di vedere una fotografia, una radiografia di tutta la coppia, della triade, in un momento che non vedrà nessun altro mai più” - E tu non hai mai provato invidia? - “Ho provato la sensazione di dire ‘un domani questo lo voglio anche io’, voglio essere esattamente dentro questo, questo momento di felicità, di soddisfazione, voglio questo sguardo, questa chimica, questa armonia, questa energia. A volte è capitato che mi sia commossa, magari perché mi ero particolarmente legata a delle coppie.”
- Cosa vuol dire, venendo da Anabah, Prendersi Cura? - “Sai, più ho letto le interviste passate più mi sembrava che fosse già stato detto tutto. Grazie eh, che mi lasci alla fine quando è più difficile. Sai, noi siamo ostetriche e a me fa strano parlare di paziente, parlare di dolore. Perchè il dolore si, c’è. Ma ha una valenza, una finalità diversa, mi viene da dire positiva. Tutti sgranano gli occhi quando lo dico, ma quel tipo di dolore lì è positivo perché ti porta a incontrare tuo figlio. Per cui, secondo me, prendersi cura è farsi carico, accogliere quello che quella persona sta vivendo in quel momento. Ma non farlo come se dovesse essere il tuo, ma come quello della persona a te più cara che vuoi supportare, non sostituire. È trovare un modo per esserci, per aiutarle, io dico sempre alle mamme che assistere loro è come andare lì e prendere quel peso, quel carico che hanno appoggiato sulle spalle e sollevarlo, sollevare la mamma e la coppia da quel dolore, da quelle preoccupazioni, da quella difficoltà che non la fanno concentrare sul momento. È aiutarle a trovare le energie per far partorire la bambina, per fare affrontare questo parto, questo aborto, questo intervento. Ecco, è anche un po’ accogliere quella persona, sollevarla da qualcosa, farsi carico ma in maniera positiva, fare da catalizzatore del loro momento. È anche immedesimarsi con loro, essere sulla stessa lunghezza d’onda per capire cosa fare in quel momento, senza invadere un loro momento magico, unico e irripetibile.”
Indovinate di che colore erano gli occhi di Laura, mentre mi raccontava? Esatto, Azzurro Limpido.
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Giorgia, 29 anni. Giulia, 28 anni. Anestesia e Rianimazione.
Reservoir Dogs, conosciuto anche come “Le Iene”, è un film giallo psicologico con elementi neo-noir del 1992, che ha rivelato ai cineasti il talento di Quentin Tarantino. A questo film si ispira l’omonimo programma televisivo, con alcuni richiami stilistici (gli abiti, la scritta della sigla, Mr. Brown). E’ un programma di intrattenimento caratterizzata da uno stile irriverente che si presenta come approfondimento dell’attualità italiana. Ma tra il dire e il fare ci passa il mare.
Si usa dire che i proverbi antichi non sbagliano mai. Questo è vero, ma non è chiaro a tutti il perché. Credo che i proverbi non sbagliano mai perché sono loro stessi a farti sbagliare. E anche “Le Iene” è sbagliato. Basti pensare a tutte quelle volte che hanno riportato con toni allarmistici o sensazionalistici informazioni non veritiere. Basti pensare al “Caso Stamina”, la cui pubblicità di fatto non ha fatto altro che aggravare le sofferenze altrui. Altro che Prendersi Cura.
Ma, dal mio punto di vista, Le Iene presenta del buono. Una sola cosa: il format dell’intervista doppia. Format che vi ripropongo a seguire.
- Giulia: Giorgia, ma perché hai scelto di fare Medicina? - “Sai Giulia, questa è una bellissima domanda! Ho scelto di fare medicina alle medie, non so spiegare perché. Probabilmente sono stata un po’ influenzata da mio zio medico che, insieme a mia madre, raccontava il suo percorso da medico condotto degli anni CInquanta. E piano piano è crescita questa convinzione, la volontà di voler intraprendere questa carriera. Ho ammirato la passione che ci mettevano alcune persone, e ho desiderato farla mia. Avevo anche passato il test per Ingegneria Gestionale, ma alla fine ho deciso di provarci finché non sono entrata. E tu Giulia, come sei finita sui banchi dell’Aula Magna di Medicina?”
“So che vi farò ridere, ma ho scelto di fare Medicina alle elementari. In famiglia non c’è stato nessun medico, ma io ero affascinata dal corpo umano, è una cosa che mi è sempre piaciuta. Mi ricordo che mia mamma mi aveva comprato la prima uscita di Esplorando il Corpo Umano e io mi ero appassionata tantissimo, e negli anni ho coltivato sempre di più questa cosa. Mi sono convinta quando mio Papà ha cominciato ad avere qualche acciacco di salute, sul versante cardiaco. E il cuore è diventato il mio organo preferito. Alla fine anche la scelta di Anestesia e Rianimazione è legata al cuore, per via degli strascichi che vi sono stati. Insomma, ho vissuto questo mondo da paziente e ho capito che sarebbe stato mio”.
- Giulia, chiedi a Giorgia perché ha scelto di fare Anestesia - Giulia: Ehi ricciolina, perché hai scelto Anestesia? - “Sai, forse è anestesia che ha scelto me. Può essere una frase fatta, ma io credo molto nel destino. Io volevo fare Ginecologia, perché mi affascinava molto tutto quello di bello che potevi tirare fuori dalla Medicina. E anche, parlando di Maieutica, proprio tirare fuori la vita dalla medicina. Poi, visto il test nazionale, mi sono guardata intorno e mi sono ricordata quella volta in cui a Pavia avevo assistito alla gestione di un codice Blu (Che è un codice rosso in pericolo imminente di vita). Ed ero rimasta affascinata dalla naturalezza e decisione con cui un team danzava intorno a un paziente, cercando di salvargli la vita. E ho pensato che anche io avrei voluto far la mia parte.”
Ragazze, sapete meglio di me che ultimamente non abbiamo passato un periodo facile. Chiedetevi l’un l’altra quale sia il ricordo più bello e più brutto di questa emergenza!
“Giorgia: Allora Giulietta, cosa ti ha colpito di questo periodo?” “Sai, mi ha colpito l’esperienza in toto. Il fatto che oltre a distruggere la nostra progettualità quotidiana come esseri umani, ci ha impedito praticamente di pensare a cose belle, a cose da fare per un periodo abbastanza lungo (che sta ancora continuando) e ci ha messo davanti al fatto che siamo estremamente impotenti. D’altra parte ho un ricordo molto bello che è legato all’esperienza nel Padiglione Covid. C’erano due ragazzi, maschio e femmina, con Sindrome di Down, che erano dati per spacciati in virtù del loro quadro radiologico. Ho cominciato a far telefonare a casa il ragazzo, con le videochiamate. Ero onesta con la famiglia, dicevo la verità. E cioè che non sapevamo come sarebbe andata. Ma lui piano piano, da solo, è passato dal reservoir alla mascherina, e poi agli occhialini nasali, e poi è tornato a casa. E insieme siamo scoppiati a piangere al telefono: lui perché si era commosso di rivedere la sua famiglia dopo tre settimane, io perché è stato un momento molto forte. E tu Giorgia, cosa porti dietro di questo momento?”
“Per me il 2020 è stato un anno un po’ particolare, perché mi ha messo alla prova sotto diversi punti di vista. L’esperienza Covid ha pesato non poco. Per la prima volta avevo il tempo di conoscere i pazienti, e purtroppo avevamo il tempo anche di salutarli. Sono stati dei momenti a cui non eravamo abituati, perché alla fine stiamo con loro per un periodo ridotto. E questo ci, mi, ha spiazzato. Ci ha fatto sentire impotenti. Qualcosa a cui non eravamo per niente preparati. Ma anche per me c’è stato un momento molto forte. Ricordo questa signora anziana con un presidio per la Ventilazione Non Invasiva, allettata e poco responsiva. A un certo punto il suo cellulare continuava a suonare, e con la coda dell’occhio ho intravisto che erano messaggi di auguri. Ma la signora era troppo debilitata per notarlo. In quel momento l’ho guardata e ho capito che ero davvero l’unica persone che potesse tenerle compagnia il giorno del suo compleanno. Allora mi son messa li, accanto a lei, e le ho tolto il presidio fastidioso per un poco. Le ho fatto compagnia e le ho fatto gli auguri. Lei mi ha guardato, spero che abbia capito che ero vicina a lei almeno in quel momento.”
- Chi ha voglia di chiedere per prima all’altra cosa vuol dire ‘Prendersi Cura’? -
“Giorgia: Giulia, cosa vuol dire per te questa domanda fatale?” “Provo a risponderti. Per me Prendersi Cura, e non voglio essere banale ma è così, significa andare davvero oltre la clinica. Andare oltre la scienza che caratterizza il nostro lavoro. Perché se da un lato l’emotività e l’empatia ci possono fregare, perché è un lavoro di emergenza-urgenza, dall’altro lato è fondamentale. Tante volte vedo i pazienti che vengono chiamati con il nome degli interventi, e questo per me non vuol dire prendersi cura, vuol dire eseguire un compito puro. Noi abbiamo a che fare con delle persone che hanno famiglia, hanno una storia e ogni volta che noi ci troviamo in sala operatoria con un paziente che dev’essere operato dobbiamo ricordarci che facciamo parte di quella fetta di vita che comunque da’ loro un’altra possibilità. E dobbiamo comunque dare quel lato di umanità che loro si aspettano dal medico” “Dai Giorgia, concludi col tuo pensiero”
“Sono d’accordo con te Giulia. Questo è il senso di Prendersi Cura. E’ prendersi il tempo con il paziente. E il tempo è una delle cose che è mancato principalmente in questo periodo Covid. Nel senso che tu non avevi il tempo fisico di capire chi avevi davanti. Purtroppo tutti i pazienti diventavano uguali, diventavano delle età, dei numeri, delle comorbidità. Loro non si meritano questo, al di là della situazione di emergenza. Bisogna stare con loro, diventare una fetta della loro vita, della loro storia. E dobbiamo esserci al 100%. Quindi non fermarci ai numeri e ai dati, ma esserci veramente e sforzarci di comprenderli un pochino di più”.
Tim Roth, a proposito del film Le Iene, ha affermato “ogni scena è il risultato delle azioni dei personaggi o serve a definirli”. Parafrasandolo, “ogni paziente accudito è il risultato delle azioni di Giulia e Giorgia e le definisce”.
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Margherita, 29 anni, Ortopedica.
Nel senso etimologico stretto, la parola Ortopedia ha un’origine molto bella, romantica. Nasce unendo due parole di Greco antico, le parole “diritto” e “bambino”, in quanto essa aveva come obiettivo quello di correggere le deformità del fisico nei bambini. Fu coniata da Nicolas Andry, professore di Medicina a Lione. Nei suoi testi Andry pubblica anche l’immagine, creata da Antoine Humblot, che poi è divenuta il simbolo della disciplina nel mondo, cioè l’albero torto sostenuto ad un tutore tramite delle corde.
Quando, casualmente, ho letto questa nozione su Wikipedia ho pensato che mi sarebbe piaciuto includere un ortopedico in questa raccolta. Ma sarebbe dovuto essere un ortopedico di quelli importanti, con una forte personalità, di buon sorriso e di vari interessi. Una di quelle persone buone, sempre pronte ad aiutare. E il mio pensiero è corso a Margherita. L’ho rincorsa per un mese, pur essendo lei pronta a immolarsi subito per la causa. Prima il Covid, poi gli smonti-monti notte e i temporali ci hanno ostacolato, ma alla fine ci siamo riusciti. La vado a trovare nel suo reparto temporaneo, dove sono ospiti nell’attesa che finisca l’emergenza Covid19. Andiamo nelle scale di servizio, per scattare. E qui compare la prima difficoltà. Margherita è più alta di me (non che fosse difficile, ndr) quindi devo fare mille contorsionismi per non infrangere la regola base della fotografia, non scattare le foto dal basso per non ingrassare le persone. Perché Margherita è autoironica e buona, ma è anche in forma. Meglio non rischiare le botte.
- Marghe, ora che hai il sole in faccia sei confusa, quindi ti posso fare tutte le domande che voglio! Perché hai scelto di fare Medicina? E perché proprio l’Ortopedica? - “Sai, mi sono sempre piaciute le materie scientifiche, e mi piaceva l’idea di fare un lavoro che fosse utile. Poi è successo, nel senso che ho fatto il test ed è andata. Ma avevo pronto il piano B, che era ingegneria biomedica. Vedi, anche prima di sapere che avrei fatto Ortopedia, c’era un indirizzo verso la protesica!” - Ma quindi la scelta dell’Ortopedia è stata mirata? - “No, è stata una serie di coincidenze. Io sono stata una di quelle indecise fino all’ultimo sulla specialità, pensa che ho chiesto la tesi in ORL all’ultimo anno. Poi mi è rimasta l’impronta chirurgica, mi piaceva l’idea di usare le mani. L’ortopedia mi è stata raccontata da varie persone, conosciute in ambito extra-ospedaliero, e quando si è trattato di scegliere quale specializzazione provare ho tirato un po’ le somme e ho scelto Lei.”
Io sono subdolo, so che Margherita ha fatto un’esperienza umanitaria, e voglio tirarla fuori per aggiungere un po’ di commozione e pathos a questa intervista, quindi le chiedo quale sia il suo più bel ricordo della carriera medica, ma con un occhio di riguardo alle esperienze fuori Parma. E la trappola scatta! “Sai, è legato alla Sierra Leone. E’ stato vedere la reazione di questa ragazza giovanissima, avrà avuto 22-23 anni, che aveva una deformazione del femore e del ginocchio, praticamente aveva tutto l’arto bloccato in flessione e camminava quasi strisciando. Le abbiamo fatto un grosso intervento in cui, con varie osteotomie, abbiamo raddrizzato la gamba. Vedere la sua reazione quando si è svegliata dall’anestesia e ha visto la gamba dritta. Vedere la sua reazione quando, il giorno dopo, l’abbiamo messa in piedi. Beh, è stato un momento molto forte. Ho ancora il video di lei che cammina.”
- Quindi sei andata in missione umanitaria, ma perché ci sei andata? - “Questa è una di quelle cose che avevo dentro già prima di fare medicina, mi ero sempre detta che se avessi studiato medicina sarei voluta andare in missione per vedere come sono le realtà diverse dalle nostre, come ci si può rendere utili, e se fossero delle missioni che ne vale veramente la pena o cose che avessero un senso limitato. Quello che manca in questo genere di esperienze è il follow-up successivo, è il seguire i pazienti dopo. Perché nella nostra pratica seguire il paziente è tutto, non è che quando esci dalla sala finisce il percorso con il paziente!”
- Tu lavori in un ambiente che per decenni è stato prettamente maschile, ora piano piano sta cambiando. Un ambiente anche molto competitivo e ambizioso. Se dovessi descrivere questo mondo che affronti tutti i giorni, con un’immagine, pensiero, canzone, cosa ti viene in mente? - “Welcome to The Jungle! All’inizio volevo dire semplicemente una jungla, poi hai detto canzone e mi è subito apparso in mente il video di Axl Rose che si dimena come sa fare solo lui.”
- Nella Jungla, cosa vuol dire ‘Prendersi Cura’? - “Nel mio ambito vuol dire fare un percorso con il paziente. E’ vero che la mia è una specialità chirurgica, ma il percorso di cura non si esaurisce nel mero atto chirurgico. E’ proprio da lì che parte un percorso di accompagnamento verso la guarigione, perché il paziente lo devi seguire. Lo devi indirizzare nel post-operatorio, per la fisioterapia, lo devi accudire in tutto. E poi, secondo me, è in questo percorso che trovi la soddisfazione del lavoro, è qui che dici ‘Ok, oggi sono contento di aver fatto qualcosa di utile’.
E nel frattempo, la chiamano al cellulare. Indovinate la suoneria? Parte con “Welcome to the jungle, we got fun and games, We got everything you want….
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Vicky, 36 anni, infermiera
Ultimamente una giornata ha cambiato la nostra vita. È stato il 10 marzo 2020, giorno in cui tutta l’Italia è diventata zona protetta per proteggersi dal SARS-CoV-2, per gli amici Covid19. Con un decreto sottoscritto la sera del 9 marzo, il Premier Giuseppe Conte, ha esteso all’Italia intera le misure restrittive già applicate alla Lombardia e alle 14 province del Nord più colpite. Tale provvedimento avrà efficacia fino al 3 aprile.
Questo provvedimento ha cambiato la vita di tutti, l’ha limitata, ed ad alcuni l’ha fatta riscoprire. Tutti gli operatori sanitari sono stressati, ma spero che tutti pensino “Sto facendo il mio lavoro, è qui che vorrei essere”.
“E’ proprio qui che vorrei essere” me l’ha ripetuto anche Vicky, parlando della situazione attuale. Vicky è un’infermiera che ho conosciuto a Khulna, che si è messa in gioco, pur non conoscendo l’ambiente della Sala Operatoria. A metà missione ha dimostrato il suo potenziale, arrivando a gestire un reparto di circa 30 posti letto, in una lingua sconosciuta ma comunicando a suon di sorrisi.
-Vicky, quando hai scelto di diventare Infermiera?- “Sai, vorrei poter dire di aver avuto una vocazione, ma mentirei. È stato, in realtà, il caso a portarmi su questa strada. Lavoravo come assistente alla poltrona in uno studio dentistico ed il mio datore di lavoro, vedendomi insoddisfatta della mansione che svolgevo, mi ha invogliata ad iscrivermi ad un corso di laurea. Avevo molti dubbi, ma dopo il mio primo tirocinio come allieva infermiera ho capito di aver intrapreso il percorso giusto per me. Lo ringrazio ancora oggi”
- Vicky, sei una persona molto esigente. Ricordo che a Khulna rimuginavi sempre sul perché fossimo lì. Non a voler solo dare una mano, ma dare tutto quello che potevamo. Una persona che si sforza così tanto riceve sempre tanto indietro, magari indirettamente. Ma invece qual è il tuo più brutto ricordo della tua carriera? - L’intervista è a distanza, a causa delle disposizioni ministeriali, ma sono sicuro che in questo momento Vicky fa schioccare la lingua sul palato e alza gli occhi al cielo, per pensare. E risponde: “Il momento più brutto per me (ma più che brutto lo definirei difficile ) è stata la prima settimana di lavoro nel reparto in cui tutt’ora presto servizio. Mi sono sentita non all’altezza ed un pesce fuor d’acqua. Grazie al sostegno di alcuni colleghi, ancora oggi miei cari amici, ho superato ogni difficoltà. Invece i momenti belli in reparto negli anni successivi sono stati tanti. Ricordo, in particolare, il percorso riabilitativo di un paziente che è rimasto ricoverato per molto tempo nel nostro reparto ed a cui tutto il personale si era affezionato. Il suo desiderio era quello di accompagnare la figlia all’altare ma si trovava allettato e completamente dipendente: l’obbiettivo è stato raggiunto con grandi sforzi di tutti. E quando, con le lacrime agli occhi, ha ringraziato tutto il personale mostrandoci le foto del matrimonio è indescrivibile. È stata una grande soddisfazione, tutto il personale si è commosso”
Vicky è straniera. È mezza inglese. Forse questo aiuta a vedere la vita con una prospettiva più ampia. E infatti, quando le chiedo cosa sia stata la missione a Khulna per lei, subito mi risponde: “La missione in Bangladesh è stata la mia terza missione con la onlus SOS Ortopedia. Vorrei riuscire a mantenere questo impegno annualmente, perché mi aiuta a ristabilire una “più ampia visione delle cose”: un’apertura mentale che solo con esperienze di questo genere credo si riesca ad acquisire“
Qui mi tocca darle fastidio, fare quello che pensa sempre contro a tutti i costi. Non posso non pungolarla, l’ho fatto per due settimane in missione. Non posso mica smettere ora! - Però Vicky, se ci pensi, non è solo il volontariato ad ampliare la mente! Sono tutte le esperienze diverse che una persona fa, quando esce dalla comfort zone. Per esempio, tu hai vissuto per un periodo a Londra. Com’è stata quell’esperienza? - “Hai ragione, vivere a Londra è stata una grande esperienza che mi ha dato coraggio. Lì ho appreso che, anche in una grande metropoli, so cavarmela da sola, contando solo su me stessa. Il motivo di quella trasferta era stato il brutto rapporto che ai tempi vivevo con il paesino di provincia dove sono nata e cresciuta: Fidenza. Con Fidenza ho sempre avuto un rapporto di amore/odio, mi andava “stretta”. Dopo un anno in una città così dinamica, sovraffollata e caotica ho sentito la malinconia di casa e sono rientrata alla base. Tutto ciò quindi mi è servito ad apprezzare Fidenza e casa”.
- E da fidentina-londinese, cosa vuol dire per te Prendersi Cura’? - “Sai, il Prendersi Cura per me significa evitare che vi sia un allontanamento umano tra il professionista e l’assistito. E’ un aspetto che va oltre l’assistenza, fondamentale specialmente nel mio lavoro. Ammetto che non sempre ci si riesca…..ma quando questo avviene il risultato è veramente una grande soddisfazione umana e lavorativa”.
E noi, siamo sicuri non sia una vocazione in realtà?
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Marco, 31 anni. Melania, 30 anni. Anestesisti-Rianimatori, coppia.
Con il termine coppia spesso si descrive la relazione che intercorre tra due persone. E’ un termine che generalmente si riferisce a rapporti in cui vi è confidenza; confidenza che può essere con coinvolgimento e intimità emotiva, sentimentale e/o erotico-sessuale. Spulciando nella Treccani si nota anche che può indicare un rapporto di tipo professionale o socialmente noto. La coppia può sfociare nel matrimonio. C’è chi definisce matrimonio come “un innesto: o attecchisce o no” (V. Hugo), chi lo definisce una “scienza” (H. De Balzac). C’è chi afferma che “fragilità, il tuo nome è matrimonio” (J. Joyce), chi ribadisce che è “il compimento di un bel sogno” (A. Cechov).
Ognuno, quindi, ha la sua personale definizione di matrimonio. Tra i miei tanti pensieri, una delle mie definizioni è composta da due nomi: Marco e Melania. Coppia, amici, amanti, sposi, colleghi, intimi. Si sono conosciuti cominciando la stessa carriera, in ambito volontario. E non hanno più smesso di conoscersi.
Per condurre l’intervista, doppia in tempo di SARS-CoV-2 per recuperare terreno, ho fatto leva su Melania, in modo tale che convincesse Marco. Ed eccoci qui, me lo ha portato e siamo pronti a farli imbarazzare.
- Quando avete scelto di fare medicina? - “ Io verso il quarto anno di liceo - attacca Melania, che è la più disinvolta - un motivo particolare non me lo ricordo, non mi veniva nient’altro che potesse centrare con me, mi ci vedevo a fare il medico anestesista”. Curiosamente, anche Marco ha scelto questa strada verso il quarto anno - “Anche io alle superiori, sempre verso il quarto anno. Credo più che altro perché un mio compagno di scuola del tempo mi aveva sconsigliato di fare Ingegneria. Probabilmente voleva levarmi dalle balle per non avermi all’università” - Ma anche tu hai scelto subito di fare Anestesia? - “Si, anche io da subito”. - Ma come mai? Alla fine, se ci pensate, è una branca molto di nicchia. Non è il sogno di tutti. Come prima, è sempre Melania a rispondere per prima - “Io perché sapevo che gli anestesisti sono quelli che vanno sulle ambulanze, e poi quando ho iniziato medicina sono andata in Assistenza Pubblica. Dove ho conosciuto questo qui, tra le altre cose” - Quando è successo? - Risponde Marco “Circa nel 2007…..(parte un’occhiataccia di Melania, come a voler dire “cosa dici”. E infatti si corregge)…..Scusa, nel 2009 perché era la fine del mio primo anno di medicina e l’inizio del suo”.
E da lì non vi siete più lasciati, giusto? Com’è stato studiare insieme? - Questa volta risponde Marco: “Io sarei ancora lì, per esempio. Non avrei ancora finito”, con Melania che controbatte “No, ci siamo aiutati tanto. Anche perchè, correggimi se sbaglio, ognuno di noi è bravo in cose diverse. insomma, anche a studiare io sono quella che dettava i tempi, il ritmo, organizzavo la cosa. Lui è quello che sa le cose”. E scoppia a ridere di gusto, facendo rimbombare le scale anti-incendio. Infatti Marco ricorda come “gli ultimi esami senza di lei ci avrei messo un sacco di tempo, se non ci fosse stata lei addio. Io sono quello che tagliamo qui, questo non lo facciamo, eccetera. Io potevo fare lo schemino di quel giorno, ma non ci stavo dietro perché mi perdevo a leggere i dettagli, cercare robe su internet”.
- Se doveste associare il vostro lavorare a un’immagine, un’idea, un quadro, come lo descrivereste? - “Per me - risponde Melania - è una similitudine con un altro mestiere. Con il pilota degli aerei. C’è la fase del decollo, che è quella dell’induzione, la fase di viaggio quando metti il pilota automatico, in cui se tutto va bene non fai niente (e metti lo specializzando a guardare il monitor) e la fase di atterraggio che forse è la fase più critica, più del decollo”.
“Invece a me è venuto in mente un paesaggio di montagna”, dice Marco - Ma perchè proprio un paesaggio di montagna? - “Non lo so, però un paesaggio ampio. Uno di quelli incontaminati, con ampi spazi, con la neve, con tutto il verde intorno. Insomma un senso di ampiezza.”
- Dai su, non possiamo fare assembramenti! Ditemi cos’è per voi il Prendersi Cura - “Sai, ci ho pensato due giorni fa, quando mi ha scritto” risponde Melania “ma perché, contemporaneamente ho fatto un turno in un padigione Covid, che non si descrive con una parola ma raccontandolo. Abbiamo valutato questo paziente, che tra l’latro è inspiegabilmente vivo, con una TC molto brutta, che morirà. E tu non sai cosa dirgli. Quando siamo andati a visitarlo, non riusciva nemmeno a parlare tanta la fatica. Ci ha detto solo ‘vi prego, statemi vicino’. E noi siamo rimasti lì, a tenergli la mano e a dirgli che non era solo.” Qui Melania è un po’ scossa, per tirarle su il morale le faccio notare che dobbiamo fare un’altra foto, e meno male che non ha il trucco. Per fortuna si è distratta un po’.
Marco invece mi racconta che Prendersi cura è “Mantenere sempre la curiosità, non lasciare farsi prendere dalla routine, prendersi cura per me è andare oltre il gesto tecnico che fai tutti i giorni. È esserci sempre, da curioso, sempre pronto a far qualcosa di più e non fare il tuo compitino. Rimanere curiosi fino all’ultimo giorno prima della pensione.”
Meno male che l’innesto ha attecchito bene.
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